Ci sono dati relativi a numerose stalle da latte italiane che non hanno nulla da invidiare alle migliori del mondo. C’è però una bella fetta di aziende nelle qual i numeri non sono entusiasmanti e si mantengono criticità.
Sono note quelle relative alla sfera riproduttiva. C’è il dato pesante della percentuale di vacche scartate nelle stalle entro i primi due mesi di lattazione. C’è l’età media al primo parto. C’è la percentuale elevata di primipare con più di 200mila cellule al primo controllo, e il dato peggiora per secondare e terzipare. Ci sono le realtà di sovraffollamento, pulizia carente, protocolli di mungitura inadeguati, produzione degli insilati e gestione delle trincee, eccetera.
Se queste criticità si mantengono negli anni e nei decenni in uno zoccolo duro di stalle ciò investe inevitabilmente anche i meccanismi con cui la ricerca prima e l’informazione tecnica poi sono portate sul campo, ai destinatari.
Se certi messaggi non diventano cultura pratica, o lo diventano con grande fatica e solo parzialmente, mantenendosi sacche di bassa managerialità, significa che probabilmente non tutto funziona come dovrebbe nel travaso di formazione e informazione dalla ricerca alla stalla.
Vuol dire che ci sono ruote che girano, ma senza cinghie di trasmissione che le colleghino in maniera efficiente. Perché questo? Provo a immaginare qualche risposta.
La mancanza di strutture terze, non coinvolte direttamente nella commercializzazione, in grado di tradurre la ricerca in linee di condotta pratiche condivise e autorevoli. Certo, ci sono enti e organismi pubblici o para-pubblici, ma nessuno ha autorità, forza o struttura per imporsi a livello nazionale come punto di riferimento indiscusso.
La stessa Università – salvo lodevoli eccezioni – è stata per molto tempo sganciata da una sua “compromissione” positiva tra scienza alta e “prosaiche” necessità di chi deve fare reddito ogni giorno. Così, storicamente, la sintesi tra ricerca e stalla è stata fatta – e questo accade in larga misura tutt’ora – dalle aziende commerciali, con tecnici spesso estremamente preparati, non di rado con collegamenti diretti con le migliori università americane. Ma – giustamente – questa sintesi è fatta con un occhio di riguardo agli obiettivi commerciali dell’azienda per cui lavorano.
La stessa stampa tecnica non è immune da pecche e se la quantità di fogli e testate non ha prodotto una crescita tecnica sul campo proporzionata ai fiumi di inchiostro versati ci sarà un perché.
Insomma: se i numeri e le realtà sul campo sono in chiaroscuro nessuno può sentirsi esente da colpe. Di merito o di metodo.
Ma, mentre in passato il prezzo generoso del latte copriva tutto, adesso la realtà è drammaticamente cambiata. Le inefficienze non corrette negli anni, la ricerca che non è diventata cultura pratica in stalla, faranno la differenza tra le aziende che riusciranno a scamparla e quelle che chiuderanno.
La riflessione è aperta. Certo è che così come si è configurato in Italia il meccanismo di travaso dalla ricerca alla pratica, nelle sue varie segmentazioni, non è efficiente. E’ un po’ come se ci fossero tante ruote sulle quali ogni criceto gira più o meno rapidamente senza però contatto con la ruota dove un altro criceto fa altrettanto e un altro ancora, accanto a lui, fa lo stesso.
Per la situazione economica in cui versano ora le stalle, però, c’è futuro solo se queste ruote sono ben collegate tra loro e il movimento di ogni criceto fa girare la propria ruota ma, nel contempo, aiuta il movimento anche di quella del vicino.