Se il consumatore non capisce che deve mangiare cibi più sostenibili, se l’etichettatura non serve, c’è sempre la leva fiscale.
Ossia: tassare di più gli alimenti meno sostenibili, per la produzione dei quali, cioè, si hanno le maggiori emissioni di C02.
Questo, in estrema sintesi, il senso del progetto di ricerca europeo Susdiet – Understanding consumer behaviour to encourage a (more) sustainable food choice, appena concluso, che ha coinvolto studiosi di 9 Paesi e di aree disciplinari diverse ed è stato presentato in occasione della Giornata mondiale alimentazione.
Un progetto che vede coinvolta, per l’Italia, Alta Scuola di Management ed Economia Agro-alimentare dell’Università Cattolica.
Come sempre le intenzioni sono dichiaratamente nobili: portare il consumatore a diete più salutari, più rispettose dell’ambiente, più sostenibili. Ovviamente per il bene del consumatore e per quello dell’ambiente.
Però il consumatore è testone e non lo fa di sua spontanea volontà.
E allora?
Come spiega in un’intervista su Repubblica Paolo Sckokai – che ha guidato il team di ricercatori dell’ Alta Scuola di Management ed Economia Agro-alimentare dell’Università Cattolica che ha partecipato alla ricerca – “poiché produzione e consumo agro-alimentare generano il 20-25% delle emissioni complessive di CO2, tassare i prodotti meno sostenibili potrebbe ridurle di un ulteriore 4-5% con un impatto significativo sull’effetto serra”.
Dato che l’etichettatura fa poco per cambiare gli atteggiamenti dei chi acquista cibi, ecco l’ideona: tassare di più quelli meno sostenibili, definiti dal livello di emissioni di C02. E, infatti, lo studio in questione aveva l’obiettivo di verificare gli effetti di una ipotetica strada fiscale per portare alla bocca dei consumatori europei alimenti più “virtuosi”.
Tuttavia non ci vuole molto per arrivare al punto centrale della questione che, quando si tratta di alimenti e sostenibilità ambientale, è sempre e comunque un attacco alle produzioni animali.
Riporto ancora un passaggio dell’intervista a Repubblica del prof. Sckokai: “In particolare abbiamo simulato l’impatto di una tassa sugli alimenti a più alto contenuto di emissioni di CO2, che, com’è noto, sono i prodotti di origine animale. Gli schemi di tassazione che abbiamo simulato non prevedono un aumento del carico fiscale sui cittadini, e quindi nessun impatto sulle loro tasche, ma una compensazione tra categorie di alimenti: se si tassano i prodotti di origine animale, di cui ovviamente aumenta il prezzo finale, contemporaneamente si sussidiano i prodotti a basso impatto ambientale, come frutta, verdura, derivati dei cereali, per i quali i consumatori possono beneficiare di un prezzo più basso”.
Capito il senso? Si tassano i prodotti di origine animale, che costeranno di più e quindi gli acquisti diminuiranno. Però, dato che si tasseranno di meno quelli vegetali, il consumatore non ci rimette niente. Qualche bistecca in meno, qualche mela in più, che ci vuole?
Sottolineo il passaggio “come è noto” che sigilla nella teca dei dogmi intoccabili il concetto che le produzioni animali siano il cattivo della situazione, sempre da bastonare e castigare: fanno male alla salute e producono C02.
Eppure un po’ di approfondimento sulla cosa non guasterebbe.
Ad esempio sull’impatto che una tassa del genere avrebbe sul sistema di produzione nazionale di carne, latte e derivati, per cominciare. Tassando queste produzioni perché ritenute poco sostenibili si avrà una riduzione dei consumi e uno spostamento verso prodotti importati a prezzo più basso e sicuramente a minori garanzie, per il consumatore e per l’ambiente.
Le proteine animali saranno spinte ancora di più verso la fascia abbiente dei consumatori mentre un numero maggiore di persone dovrà privarsene, o abbassare la soglia di qualità e quantità, perché i sacerdoti del cibo sano ed ecologico (che sono quelli in genere a portafoglio più fornito) avranno deciso che per loro una dieta più vegetale è meglio.
E poi: è proprio vero che per fare un kg di carne si “spreca” tutta quella quantità di cereale?
“Certo, gli animali consumano anche alimenti che potrebbero essere consumati da persone come i cereali, che rappresentano il 13% della quantità totale di sostanze secche per il bestiame”, spiega Filippo Gasparini, presidente di Confagricoltura Piacenza. “Tuttavia – continua – un nuovo studio della Fao pubblicato da Global Food Security indica che la nutrizione del bestiame si basa principalmente sui foraggi, sui raccolti e sui sottoprodotti che sono immangiabili per gli esseri umani e che alcuni sistemi di produzione contribuiscono direttamente alla sicurezza alimentare”.
“Contrariamente ad alcuni studi precedenti, spesso citati, che hanno stimato il consumo di grano necessario per aumentare 1 kg di carne bovina tra 6 kg e 20 kg, questo nuovo studio ha rivelato che in media per produrre 1 kg di carne sono necessari solo 3 kg di cereali. I dati Fao mostrano anche importanti differenze tra i sistemi di produzione e le specie. Per esempio, poiché si basano su pascoli e foraggi, i bovini hanno bisogno solo di 0,6 kg di proteine da alimenti commestibili per produrre 1 kg di proteine nel latte e nella carne. Lo studio Fao esamina, infine, anche il tipo di terreno utilizzato per la produzione di mangimi per animali. I risultati mostrano che dei 2,5 miliardi di ettari necessari (per le produzioni animali a livello globale) il 77% sono prati, con una gran parte di pascoli che non potevano essere trasformati in terreni coltivati. Gli animali, inoltre, completano la produzione agricola attraverso la produzione di letame”.
Allora, siamo poi così sicuri che le produzioni animali siano quel mostro da abbattere, anche a colpi di tassazione differenziata, in nome del colesterolo e della C02?
E, ultimo ma non ultimo: è innegabile che il mondo delle produzioni animali è sotto attacco perché non rientra più nei canoni etici del politicamente corretto, anche a tavola. I fronti di attacco sono tanti: benessere animale, salute del consumatore, consumo di risorse, emissioni di C02…
L’ideologia di chi dirige gli attacchi è potente, molto più delle prove scientifiche che possiede.
Se poi le prove sono quelle di studi come questo, allora la situazione non è bella.
Ciò non toglie, ovviamente, che il lavoro da fare per ridurre al minimo le emissioni di C02 nelle produzioni animali sia da portare avanti senza indugi.
Le possibilità ci sono e sono legate a tecniche agronomiche migliorate, gestione corretta dei liquami, stoccaggi coperti, copertura permanente del suolo, recupero dei prati stabili e delle colture di copertura temporanee, recupero delle acque di lavaggio, tecniche di irrigazione innovative, concimazioni mirate, eccetera eccetera.
Anzi, tutto questo, se opportunamente certificato e pubblicizzato, potrebbe diventare un “plus” per l’azienda.
Quello che stona invece è l’idea di fondo che si legge in filigrana anche in progetti come questo: deciso “come è noto” chi sono i cattivi, questi vanno bastonati sempre e comunque. Anche con tasse più alte.