Latte alla spina. Sembrava la via giusta per recuperare valore dal latte, chiudendo la filiera e rivolgendosi direttamente al consumatore finale.
Sembrava, perché dopo qualche anno di un certo entusiasmo la cosa è stata retrocessa: da opzione strategica a possibilità interessante solo in certe ridotte situazioni.
Vale la pena rifletterci su, perché questa esperienza mette in luce alcuni aspetti di marketing spicciolo e altro che hanno avuto un certo peso nel frenare e quindi insabbiare uno slancio che sembrava potesse crescere e acquisire brio con il tempo.
Meglio riflettere su esperienze deludenti, perché si possono ricavare insegnamenti utili per il futuro.
A mio avviso sono stati tre gli scogli su cui si è infranta la nave.
Il primo è stato concettuale, sbagliando la mira nella presentazione: si è puntato tutto sull’economicità (un litro, un euro) del latte fresco alla spina. Che c’era, rispetto all’acquisto al supermercato, ma non era così elevata da giustificare da sola un cambio radicale di abitudine nell’acquisto.
Poi si è corretta un po’ la rotta, ma il messaggio che si dava un prodotto freschissimo, veramente a km zero, legato al proprio paese e alla propria storia è arrivato dopo, poco e male e sempre in subordine al prezzo.
Il costo dell’investimento per posizionare l’erogatore non era indifferente, ma il problema sottovalutato da molti (e siamo al secondo scoglio) è stato il carico di lavoro che questa vendita richiedeva: carico la mattina del latte, qualche giretto di verifica durante il giorno, scarico del serbatoio la sera. Non meno di un paio d’ore, ogni giorno, tutto l’anno.
Ore, spesso, che andavano a sommarsi al lavoro nella stalla o in campagna. Certo, se il distributore era posizionato in azienda il tempo necessario era minore, ma così facendo si riduceva drasticamente la platea dei potenziali clienti:
non sono i fortemente motivati quelli che fanno la differenza, ma i tiepidi, quelli che potrebbero anche decidere di rivolgersi altrove, che bisogna spingere dalla nostra parte.
Non gli si può chiedere troppa fatica perché trova l’alternativa senza farne al supermercato.
Da qui il risultato che l’incasso, nelle due ipotesi e nella maggioranza dei casi, non bastava a giustificare l’impresa.
Il rischio sanitario percepito (terzo scoglio) non è stato capito fino in fondo. Un conto sono i rischi reali, un altro sono quelli percepiti. Sono questi ultimi che fanno cambiare drasticamente i comportamenti di acquisto, come si vede bene ogni volta che emerge un problema che coinvolge un certo alimento.
Ebbene, indipendentemente da quanto fossero fondati i dubbi, la questione del latte crudo non ha mai convinto completamente una fascia di potenziali consumatori per i possibili pericoli per la propria salute.
In questa situazione le circolari che imponevano la bollitura hanno fatto il resto.
Fin qui la storia, secondo la mia opinabile ricostruzione e con sicure, interessanti eccezioni.
Il punto però è un altro:
l’attualità di questi tre punti critici rimane, qualunque sia l’idea nuova da mettere in pista.