Parlare di cose future, in questi frangenti, è sempre complicato. Come diceva un fine politico di altri tempi, con lessico erudito, la merda è entrata nel ventilatore e nessuno può dirsi immune da rischi.
Tuttavia, cercando di ragionare al di là delle emozioni, qualche considerazione si può farla.
1- prezzo del latte: non può che alzarsi, perché le quantità disponibili sui mercati sono destinate a ridursi drasticamente e repentinamente. Con il costo raggiunto da mais, soia e compagnia, certi razionamenti per certe produzioni diventano fuori mercato e sarà giocoforza ridurre l’input alimentare da acquisti esterni. Così come inevitabile sarà ridurre i capi in stalla, sempre per le stesse ragioni. Il risultato, applicato su scala globale – e in particolare europea – non può che essere in un senso unico, quello di togliere latte al mercato.
2- l’industria di trasformazione si trova davanti improvvisamente una situazione mai vista e – probabilmente – mai prevista, perché si sono messi in fila tutti insieme fattori negativi di magnitudo massima: difficoltà di reperire materia prima da lavorare, costi energetici per i processi industriali alle stelle, dubbi sulla tenuta dei consumi, perché milioni di consumatori impoveriti brutalmente negli ultimi mesi rivedranno sicuramente le loro politiche di acquisto. La tenuta del sistema industriale di trasformazione lattiero-casearia non è cosa su cui scherzare: se si contrae ora si contrae per sempre. Vale per le stalle, certo, ma vale anche per l’industria: si è sulla stessa barca, anche se lo si capisce solo in certi frangenti drammatici.
3- Per la Grande distribuzione valgono le considerazione di cui sopra: con prodotti sullo scaffale a prezzi doppi o magari tripli, a un costo carburante per raggiungerli fuori controllo, molti carrelli potrebbero restare tristemente parcheggiati, vuoti e inutilizzati.
4- Torniamo nelle stalle. Meno latte prodotto, meno capi presenti, prezzo del latte più alto. Questo più o meno lo scenario. La domanda a questo punto è: chi può farcela? Inutile nascondersi dietro un dito: non tutti. Perché le differenze di redditività tra produttori di latte, fotografate da ogni analista di bilanci serio, saranno messe alla prova del fuoco. È un po’ come una corsa: alla vista del traguardo si può arrivare con una riserva di ossigeno o praticamente distrutti. I primi ce la faranno, i secondi no.
5- Restiamo nelle stalle. Con questi costi di produzione (materie prime ed energetici innanzitutto) quale è l’identikit della stalla che può attraversare il deserto attuale e vedere la nuova (possibile) alba? Quella in equilibrio con la terra, in primis, cosa che le assicura il massimo grado di autosufficienza alimentare, senza dipendere dall’esterno, e senza squilibri – e costi – per la gestione delle deiezioni. Ancora, quell’azienda che ha fatto investimenti ragionati, che ne hanno migliorato efficienza e capacità di produrre a costi inferiori. Un po’ meno quell’azienda per la quale l’unica via di sopravvivenza impostata nel tempo è stata quella di spingere continuamente capi e produzioni, con con un equilibrio economico-finanziario sempre più sottile e spericolato.
6- Ancora sui produttori di latte. Detto quanto sopra, e con tutte le incognite dell’oggi e del domani, come immaginare un momento più propizio per cominciare a ragionare e agire in maniera collettiva e non individuale? I costi per ciò che si acquista impongono un approccio collettivo, l’unico in grado di dare forza contrattuale e ottenere condizioni migliori. Così come la questione deiezioni, che con un approccio collettivo può trovare più efficienza e maggiori risparmi. Ma vale anche per la vendita del latte. Quando si entra in una crisi sistemica è un po’ come se si azzerasse tutto e si ricostruisse su basi nuove. Se davvero si arriverà a uno scenario dove la produzione diventa centrale perché insufficiente, perché non passare a modalità di vendita collettive? Aggregando con giudizio, ovviamente: stalle accomunate da area geografica, da caratteristiche sanitarie, da percorsi volontari per il massimo benessere animale, il minimo consumo di farmaci, la sostenibilità ambientale, la biosicurezza. Tutti elementi da certificare e raccontare.
7- Massimo benessere animale, minimo consumo di farmaci, sostenibilità ambientale, biosicurezza sono ormai pre-requisiti. Ma la nuova stalla che abbiamo delineato (meno capi, meno spinta, più spazio, più terra) sarà anche quella dove sarà più facile avere queste caratteristiche.
8- In questa situazione qualche pensiero lo merita anche la folta schiera di coloro che, nel tempo, hanno sempre spinto per trasformare l’agricoltura in una sorta di luogo immaginario dove la produzione di derrate alimentari diventava una sorta di sottoprodotto. La priorità: ambientalismo spinto fino alle assurdità proprie di ogni ideologia e di ogni lettura della realtà attraverso questa lente. Per dirla tutta: che ci siano anche scemenze nel modo di disegnare l’agricoltura del New Green Deal europeo credo non ci siano dubbi. Eppure, salvo qua e là qualche mente ragionante fuori dal coro, la spinta alla decrescita è sempre stata considerata una verità assoluta, persino intelligente. Ci vorrebbe onestà intellettuale per riconoscere l’abbaglio, in primis. Ma la governance europea non brilla per acume e nemmeno per umiltà e questo non induce all’ottimismo.
Mi scuso, sono stato un po’ lungo. E ovviamente non c’è pretesa di scientificità in questi spunti, solo un ragionamento condiviso, che ognuno potrà arricchire o cassare a suo giudizio. Però sarete d’accordo che questa situazione mette alla prova il sistema nel suo complesso e segnerà uno spartiacque tra il prima e il dopo.
Il grande girotondo degli ultimi decenni è arrivato al “tutti giù per terra”.