Sarà, ma a me la grande adunata europea a Roma per il sessantennale mi ricorda molto quelle riunioni nei palazzi imperiali nel crepuscolo dell’impero romano, quando gli imperatori e i loro funzionari erano convinti di essere i padroni del mondo ma in realtà, al di fuori dei loro palazzi dorati, i barbari già correvano da un capo all’altro dell’impero, depredando quel poco che l’esosità delle tasse aveva lasciato alle popolazioni. Convinti di essere eterni, quegli sciocchi ultimi imperatori erano solo delle caricature della grandiosità antica che celebravano e di lì a poco sarebbe tutto crollato in un immane disastro.
Fatta questa premessa, veniamo alla provocazione: ma l’agricoltura, e nello specifico, la zootecnia, ha davvero bisogno di questa Europa? Intendo l’Unione europea come è diventata ora, nella sua inarrestabile ipertrofia burocratica, nella sua lontananza dalla gente comune, nella sua totale subalternità a una dirigenza tecnocratica che sopporta a malapena i popoli che questa Europa la costituiscono, con particolare insofferenza verso quelli mediterranei.
Illuminante l’esempio del latte. E parliamo di quote latte, ovviamente. Un regime durato un trentennio, più di quello fascista, tanto per fare un paragone, che come quello però ha lasciato un tessuto produttivo stremato. Quanti miliardi sono stati drenati dal tessuto produttivo per l’acquisto di quote? Una quantità immane. Per non parlare delle multe, dei ricorsi e via spendendo. E cosa è rimasto ora? Niente, quei pezzi di carta dalla sera alla mattina hanno visto tornare il loro valore a quello di un pezzo di carta straccia, anche meno.
Immaginiamo per un momento che le quote non fossero mai esistite e quel fiume di denaro fosse stato indirizzato all’ammodernamento delle stalle: adesso avremmo stalle avanzate, moderne, aggiornate, sicuramente più efficienti di quanto non siano ora. E con meno debiti.
Già, ma si diceva: “Per carità! Senza quote saremo distrutti dai produttori di latte del nord Europa!” Lo hanno detto e ripetuto tutti e siamo tutti finiti col crederlo.
Però poi le quote sono finite e cosa è successo? Si è proposto esattamente lo stesso scenario che si paventava trent’anni prima: massima libertà di produrre per tutti, senza freni. Certo non sono stati momenti belli con il prezzo del latte crollato, ma cosa si è visto, quando l’Unione europea ha stanziato gli aiuti per ridurre la produzione? Che ad aderire sono stati soprattutto e in larghissima misura i Paesi del nord Europa, con l’Italia che quasi nemmeno li ha toccati quei contributi.
Perché nel mare di latte che avevano prodotto a rischiare di affogarci erano soprattutto loro, quelli che in teoria avrebbero dovuto spazzare via noi.
Cosa insegna questa vicenda? Che il sistema zootecnico da latte italiano ha una sua particolarità, nella fattispecie la struttura portante delle Dop e la qualità e quantità della sua caseificazione, da permettergli di avere una sua vita, se non autonoma, quanto meno più indipendente dai meccanismi del resto del mondo del latte.
Ha una sua forza, una sua resilienza, non è omologabile con altri sistemi di produzione.
E probabilmente lo stesso sarebbe successo anche trent’anni fa. La verifica è stata rimandata di trent’anni, con il dettaglio che la prova della marea di latte è stata affrontata da aziende stremate finanziariamente, non in salute come lo erano allora.
Le quote latte si è visto quel che hanno prodotto. E il resto? Davvero questa Unione (che è un costo mica da ridere in termini di trasferimenti di euri da Roma a Bruxelles) fa del bene all’Italia agricola (intesa come allevatori e agricoltori, non alle caste di burocrazie statali, regionali, sindacali)?
L’abolizione di dazi, le politiche di favore verso Paesi terzi, gli stessi trattati internazionali hanno mai dato una mano all’Italia dei campi e delle stalle? Davvero sarebbe così devastante per l’Italia se ogni Paese si riprendesse in mano la propria capacità di decidere?