Adesso sotto i riflettori è il coronavirus. Gli effetti sul PIL cinese e sulla capacità di produzione del suo sistema produttivo, dove non si va tanto per il sottile quanto a benessere umano e rispetto per l’ambiente, rischiano di essere pesanti, e anche di più.
La Cina dimostra che la questione sanitaria può mandare all’aria ogni piano meticolosamente studiato sulla carta e portato avanti con investimenti faraonici e numeri da capogiro.
Se concentriamo l’attenzione sull’ambito zootecnico, i tasselli del domino sono evidenti.
La pianificata crescita a tappe forzate della suinicoltura (anche qui, senza troppo darsi pena di benessere, ambiente, biosicurezza) si è schiantata sulla peste suina africana, cosa che rallenterà la produzione di carne suina per anni.
Anche nella produzione di latte l’avanzata procede meno vittoriosa di quanto pianificato sulle mappe con il sorgere di mega allevamenti, che hanno prodotto latte in quantità crescente, ma anche questioni ambientali e sanitarie complesse da gestire.
Si dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che la questione sanitaria è fondamentale per ogni prospettiva produttiva e non può essere presa alla leggera.
Considerazione valida per ogni realtà produttiva, da tenere sempre nella massima considerazione.
Quando si tratta della Cina, tuttavia, non si può dimenticare che tutto quello che avviene qui produce scosse non indifferenti sui mercati mondiali.
I problemi sanitari, limitandoci alla peste suini africana, impattano e impatteranno anche sui mercati del latte: la minora quantità di carne suina prodotta ha fatto crescere la domanda cinese sui mercati lattiero-caseari mondiali per compensare il gap di produzione proteica.
Questo si sovrappone ai gravissimi problemi in Australia per siccità e incendi: oltre al koala bruciacchiato dei tg e a tutte le questioni note, si registra anche un calo importante della produzione di latte.
L’Oceania, come noto, è il continente che maggiormente influenza l’offerta di latte sui mercati internazionali, perché buona parte di ciò che produce lo esporta. Ora c’è meno latte prodotto e quindi meno latte da vendere, a forte di una domanda che certo non diminuisce.
Foto di Myriam Zilles da Pixabay